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Nel contesto di attuazione della riforma fiscale, autorizzata con legge delega n. 111 del 09/08/2023, il D.Lgs. 219/2023 ha modificato l’articolo 8 dello Statuto dei Diritti del Contribuente, che al comma 5 oggi recita così:

“L’obbligo di conservazione di atti e documenti, incluse le scritture contabili, stabilito a soli effetti tributari, non può eccedere il termine di dieci anni dalla loro emanazione o dalla loro formazione o utilizzazione. Il decorso del termine preclude definitivamente la possibilità per l’amministrazione finanziaria di fondare pretese su tale documentazione.” 

Colpisce l’enfasi posta dal legislatore sui limiti alla potestà impositiva dello Stato ove le pretese siano fondate su atti e documenti vecchi di oltre dieci anni. Del resto, il Governo si è attenuto a quanto indicato nella legge delega, dove all’art.17, gli è stato prescritto di agire al fine di “assicurare la certezza del diritto tributario, attraverso la previsione della decorrenza del termine di decadenza per l’accertamento a partire dal periodo d’imposta nel quale si è verificato il fatto generatore, per i componenti a efficacia pluriennale, e la perdita di esercizio, per evitare un’eccessiva dilatazione di tale termine nonché di quello relativo all’obbligo di conservazione delle scritture contabili e dei supporti documentali…

Questa formulazione avrebbe dunque dovuto porre fine alla controversa questione del termine di accertamento dei componenti di reddito a deduzione pluriennale. Questione sulla quale più volte è intervenuta la Corte di Cassazione, dapprima con la sentenza n. 8500 del 25 marzo 2021 e poi con altre successive, per ribadire il principio di autonomia del singolo periodo di imposta, in forza del quale ogni periodo di imposta è oggetto di verifica e per ogni periodo di imposta il contribuente deve conservare la documentazione di prova del calcolo della base imponibile. Con l’inevitabile conseguenza di dover mantenere in archivio documenti ultradecennali ove si deducano quote di componenti negativi sorti in esercizi precedenti (basti pensare alla detrazione delle quote di spese di ristrutturazione della casa).

L’intervento del legislatore riformista aveva in animo di risolvere il problema facendo decorrere il termine di decadenza per l’accertamento a partire dal periodo d’imposta nel quale si è verificato il fatto generatore, cioè l’elemento che ha fatto sorgere il componente di reddito, poi ripartito in più periodi di imposta.

Nuovamente è intervenuta la Suprema Corte che, con la recente sentenza n.5021 del 26 febbraio 2024, ha respinto la tesi del contribuente che contestava il decorso di dieci anni dal momento in cui si è generato il documento probatorio alla base della deduzione di una quota di ammortamento di un avviamento iscritto in bilancio; la Corte confermava così l’indeducibilità dell’ammortamento per mancanza di documentazione a supporto.

A motivo di ciò la Corte deduce che “rappresenta … un principio generale, in materia tributaria, che chi intende avvalersi di un vantaggio fiscale debba provare di avervi diritto, ed appare corretta anche l’osservazione del Pubblico Ministero secondo cui la parte che intende invocare un vantaggio fiscale è tenuta a conservare le scritture necessarie a provare di essere in possesso del titolo legittimante, anche oltre il termine decennale previsto in generale dalla legge per la conservazione delle scritture contabili”.

Al contribuente che oppone la modifica dell’art.8 dello Statuto del Contribuente, che peraltro deve intendersi quale norma interpretativa e quindi valevole anche per il passato, la Corte risponde richiamando l’art.22 comma 2 del Dpr 600/1973 che dispone che “le scritture contabili obbligatorie ai sensi del presente decreto, di altre leggi tributarie, del codice civile o di leggi speciali devono essere conservate fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta, anche oltre il termine stabilito dall’art. 2220 del codice civile o da altre leggi tributarie …, e trattasi, pertanto, di norma speciale che prevale anche sul disposto di cui all’art. 8, comma 5, della legge n. 212 del 2000.”

A conti fatti, per la Cassazione non è l’Agenzia delle Entrate che utilizza documenti ultradecennali per riprendere a tassazione un componente di reddito, ma è il contribuente che vuole far valere un vantaggio fiscale e come tale deve provare di averne diritto, utilizzando la documentazione idonea anche se generata in epoche passate, senza di fatto porre un limite all’obbligo di conservazione.

Identica posizione ha assunto la Suprema Corte nella contemporanea sentenza n. 4638 del 21 febbraio 2024.

Non si può che constatare che probabilmente si tratta di un’occasione persa per rendere operativi principi unanimemente condivisi quali la certezza del diritto e la proporzionalità dell’onere posto a carico del contribuente per sostenere la propria posizione nei confronti della pubblica amministrazione.


Post scritto da:

Dott.ssa Marta Mattiello

Dottore commercialista e revisore legale

 

 

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