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Il ruolo sociale dell’impresa

Le teorie economiche legate al filone neoclassico (anni ’70 del 1800) raffigurano l’impresa con l’immagine di una “scatola nera” che trasforma input di capitale e lavoro in output di prodotti (tipicamente beni e servizi).

In una successiva evoluzione di stampo manageriale, il modello viene ulteriormente dettagliato e rappresentato da relazioni reciproche che l’impresa (posta sempre a centro della rappresentazione) intrattiene con azionisti, dipendenti, rendendo parimenti bilaterali gli scambi con fornitori e clienti.

Nel corso del ‘900, diversi autori si sono interrogati sul ruolo dell’impresa nel contesto sociale traendo origine da ispirazioni di stampo filantropico e di corporate citizenship (una sorta di “civismo” d’impresa) legando il concetto di responsabilità a un onere di legittimazione da parte della comunità locale.

Tali concetti, però, si evolvono e trovano maggiore concretezza nelle teorie legate alla “Corporate Social Responsibility (CSR), meglio nota come responsabilità sociale d’impresa (RSI).

A partire dagli anni ’80 l’attenzione a questi temi si amplifica ulteriormente e le teorie economico-sociali vivono un’importante accelerazione con un focus sulle tre aree:

  • Persone (responsabilità sociale);
  • Pianeta (responsabilità ambientale);
  • Profitto (responsabilità economica).

Rispettivamente si ricordano gli studi legati alla Stakeholder Theory e al concetto di Shared value (valore condiviso), ancora di grandissima attualità per l’integrazione di tematiche sociali e ambientali nella pianificazione strategica del mondo profit.

Evoluzione della normativa europea in materia di rendicontazione non finanziaria

La Direttiva 2013/34/UE, in materia di bilancio, e la direttiva 2014/95/UE, in materia di non-financial disclosure, con recepimento in Italia ad opera del D.lgs. 254/16, hanno consentito l’introduzione della cd. “Dichiarazione non finanziaria” (DNF) con previsione di un obbligo di rendicontazione di informazioni, appunto, non finanziarie posto a carico degli “enti di interesse pubblico”.

La normativa in esame coinvolge le società quotate, le banche e le società di assicurazione che hanno in carico più di 500 dipendenti e che abbiano superato determinati limiti dimensionali. Tale obbligo di comunicazione riguarda quindi informazioni ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani e alla lotta contro la corruzione attiva e passiva.

Successivamente, a settembre 2015 l’ONU ha approvato i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs o Sustainable Development Goals) validi per il periodo 2015-2030, declinati in 169 target.

I 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals SDGs) e i 169 sotto-obiettivi ad essi associati costitui-scono il nucleo vitale dell’Agenda 2030. Tengono conto in maniera equilibrata delle tre dimensioni dello sviluppo sostenibi-le: economica, sociale ed ambientale. Per la prima volta, un solo documento programmatico riunisce lo sviluppo sostenibile e la lotta alla povertà ponendone la responsabilità di idonee azioni in capo alle istituzioni globali, a cui anche l’Unione europea si ispira.

Tali principi diventano una “guida” anche per l’operato delle istituzioni economiche private imprenditoriali e un elemento segnaletico da riportare nei Report di Sostenibilità già pubblicati da importanti realtà imprenditoriali e multinazionali.

La nuova Direttiva Europea sul reporting di sostenibilità e le nuove opportunità di integrazione strategica per le PMI

In tale scenario si pone la nuova Direttiva UE 2022/2464 (Corporate Sustainability Reporting Directive – CSRD) del 14 dicembre 2022 e pubblicata in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il 16 dicembre 2022, che di fatto interviene emendando le precedenti direttive citate.

La direttiva estende la platea dei soggetti coinvolti dal rivisitato obbligo informativo a tutte le imprese di grandi dimensioni (ampliando la platea già interessata dalla DNF) e alle piccole – medie imprese che ricoprono la qualifica di enti di interesse pubblico, fatta eccezione delle microimprese.

Un’impresa si definisce «grande» se supera alla data del bilancio economico due dei seguenti tre limiti:

  • Attivo patrimoniale: superiore ad € 20 milioni di totale;
  • Ricavi: superiore ad € 40 milioni;
  • Addetti medi annui superiori a 250.

Sostanzialmente è previsto che l’informativa di sostenibilità venga collocata obbligatoriamente all’interno di una sezione ad hoc della relazione sulla gestione, costituendo così parte integrante e sostanziale del reporting annuale di una società.

Al fine di aumentarne diffusione e comparabilità, la Direttiva pone anche l’obbligo di rendere digitale l’informazione presente nel report di sostenibilità, utilizzando il linguaggio XHTML e il linguaggio di marcatura XBRL.

L’applicazione della CSRD avverrà tra il 2024 e il 2028 secondo il seguente timing:

  • per gli esercizi aventi inizio dal 1° gennaio 2024 per le grandi imprese di interesse pubblico (con più di 500 dipendenti) già soggette alla precedente direttiva sulla dichiarazione non finanziaria, con scadenza della pubblicazione dei dati nel 2025;
  • per gli esercizi aventi inizio dal 1° gennaio 2025 per le grandi imprese non ancora soggette alla direttiva sulla dichiarazione non finanziaria (rispettando i nuovi limiti previsti dalla direttiva CSRD), con scadenza di pubblicazione nel 2026;
  • per gli esercizi aventi inizio dal 1° gennaio 2026 per le PMI e le altre imprese quotate, con scadenza nel 2027.

Il rendiconto di sostenibilità dei soggetti obbligati dalla Direttiva sarà soggetto ad audit, mentre per i soggetti che redigono il report su base facoltativa non vi sarà l’obbligo di sottoporlo a revisione.

PMI: come muoversi nel frattempo?

Tra le motivazioni più salienti che hanno spinto il Parlamento europeo e il Consiglio a adottare la nuova direttiva si ricorda la rapidità con cui continua a crescere il mercato delle informazioni sulla sostenibilità (e dei numerosi e variegati standard di rendicontazione adottati). In un mercato dell’informazione in costante crescita anche la domanda di informazioni societarie da parte degli investitori registra un notevole incremento. Da qui l’esigenza, avvertita dai più alti organi direttivi dell’Unione, di razionalizzare il sistema di norme regolatorie adottate dagli Stati membri al fine di evitare un sistema frammentario e divergente.

I temi di sostenibilità per chi investe o per chi concede un credito rivestono una rilevanza crescente, rendendo necessari strumenti in grado di misurare le performance delle imprese e degli strumenti finanziari in termini ESG.

In occasione di propri interventi e pubblicazioni, Banca d’Italia ha chiarito che intende delineare il proprio sistema di vigilanza (perfettamente integrate all’interno del SEBC), in modo tale che gli intermediari siano in grado di valutare la materialità dei rischi climatici e ambientali oltre che sociali e reputazionali suscettibili di ripercuotersi sul contesto aziendale.

Se queste sono le politiche di vigilanza a cui si ispira la Banca centrale nazionale e che promuove all’interno del proprio sistema finanziario (integrata nel sistema finanziario europeo), occorre interrogarsi anche sul futuro evolversi delle politiche finanziarie e di accesso al credito che impatteranno sul tessuto imprenditoriale, coinvolgendo anche le PMI formalmente esentate dagli obblighi di rendicontazione ESG, ma che nei fatti non ne saranno immuni.

Infatti, in una propria pubblicazione datata 11 marzo 2022[1], si rimarca il ruolo essenziale che ricopriranno le banche nella riallocazione delle risorse finanziarie al fine di sostenere la transizione verso sistemi economici maggiormente sostenibili.

I progetti delle imprese che avranno necessità di sostegno creditizio verranno, quindi, indagati e valutati raccogliendo informazioni adeguate sugli obiettivi aziendali legati ai fattori ESG, valutandone la coerenza e monitorando il corretto impiego dei proventi. Tant’è che istruttorie di credito inadeguate su tali aspetti potrebbero determinare la sottovalutazione dei rischi ESG e danneggiare la reputazione degli intermediari stessi.

Per tali ragioni le PMI italiane non investite dall’obbligatorietà normativa ESG sono comunque interessate a cogliere, lontano dai “riflettori” della regolamentazione, l’opportunità strategica di interiorizzare un modello di business e di governance interna di “ispirazione” ESG, per non perdere il sostegno del modo creditizio che, in questa fase, ha tutto l’interesse ad accompagnare questa transizione con cooperazione e trasparenza.

Il disegno di un nuovo modello di progetto imprenditoriale e di governance strategica sostenibile richiede un adeguato studio in termini di visione, obiettivi e azioni concrete da intraprendere a tutti i livelli e funzioni, coinvolgendo a tappeto l’intera organizzazione. È tempo di incamminarsi verso una nuova concezione di impresa sostenibile durevole nel tempo.

[1] Intervento di Giuseppe Siani, Capo del Dipartimento Vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, “I fattori ESG nel sistema finanziario: il ruolo della vigilanza”, Forum Ned Community – Rischi ESG nel rapporto banca impresa del 11 marzo 2022.


Post scritto da:

Dott.ssa Anna Foresti

 

 

 

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